Le Humanities perché…

Il mondo ci chiede di imparare a guardare e a pensare.

 

Abbiamo bisogno di imparare a capire cosa vogliamo dal mondo e cosa il mondo vuole da noi. Soprattutto all’interno del mondo delle organizzazioni, dominato dall’instabilità e dalla mancanza di un futuro, dove sembrano vuote le stesse parole destinate a costruirlo.

Solo la formazione ci può aiutare. Per dare risposta al bisogno di identità, al bisogno di appartenenza, di mantenimento dell’identità nella relazione e alla capacità di progetto. E per capire il senso di tutto questo. Una identità minacciata dall’incerto presente, dalle speranze deluse, dal continuo spread tra quanto di noi investiamo e quanto da questo investimento riusciamo ad avere indietro.

Viviamo l’ansia da spread, che non è una questione economica: l’immaginario collettivo ha saputo cogliere il valore critico dello spread ossia la distanza, lo scarto, non solo tra rendimenti e tassi programmati ed effettivi, ma tra aspettative e realtà. A questa ansia da spread si somma un’altra ansia: quella da anomia, determinata dalla percezione dell’assenza di regole. Perché le regole sono limitative, condizionanti, a volte costrittive, ma rappresentano un contenitore rassicurante della nostra soggettività, diventano ancoraggi che frenano l’egoismo, l’indifferenza e la solitudine.

Proprio per questi motivi la realtà aziendale richiede una formazione che serva alle persone a non fuggire da se stesse, ma a parlare con se stesse. Una formazione all’essere, una risposta alla sfida dell’autorealizzazione.

Non è questione di scegliere tra modelli formativi, quello gestaltico di apprendimento di strutture cognitive rispetto a quello behavioristico di apprendimento di nuovi comportamenti. Né di dare rilievo all’intelligenza romantica (sentimento, intuizione, sensibilità estetica) rispetto all’intelligenza classica (il pensiero, la ragione, le leggi).

Si tratta di non rinunciare a noi stessi, di saper affermare la nostra identità e non essere pure e semplici risposte agli altri. È la vittoria privata che deve venire prima della vittoria pubblica.

Quale tipo di formazione?

Abbiamo bisogno di una formazione che apra all’autoriflessione e alla maturazione dell’interiorità, e invece stiamo facendo di tutto perché la formazione non sembri formazione. E non è solo un problema di investimenti, di tempi necessari, di budget, di costi, di ROI. Riguarda lo stesso ruolo di formatore e la visione della formazione.

Nel primo caso, come avviene nell’educazione familiare odierna, il formatore sta perdendo il ruolo di guida e di accompagnamento delle persone nel percorso di realizzazione personale e professionale. Scomodando lo psicologo Viktor Frankl e il suo interessante gioco di parole (pacemaker-peacemaker), il formatore non si sente più pacemaker “battistrada”, portatore di valore e di sapere. Il formatore sta diventando peacemaker, ossia, un contenitore affettivo, un promotore di soluzioni emozionali del conflitto.

Nel secondo caso (la visione della formazione), la cultura della praticità e della convenienza ha spinto verso soluzioni semplici, formule risolutive, tecniche applicative, criteri del misurabile e dimostrabile, che rifuggono da riflessioni sulla complessità di certi temi. Una cultura del risultato, nella quale l’emotività e il sentimento diventano “intelligenza emotiva” e vengono allineati ai bisogni di prestazione. Ma la formazione non è solo utilità e funzionalità.

Perché le Humanities?

La formazione vuole afferrare la realtà, si vuole nutrire di progetti, di visioni per dare senso, dare significato, avvicinare il “perché”. Per rendere presente il futuro. Per rendere futuro il presente.
Il mondo ci chiede di imparare a guardare e a pensare.
Abbiamo bisogno di comprendere. E di imparare la comprensione.

Abbiamo bisogno delle Humanities.

Francesco Tulli

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