In principio era la cura

Non è vero, me ne rendo conto.

In principio era la parola. Così inizia il Vangelo di Giovanni intendendo la parola che crea contenuti, che costruisce ed elabora pensieri, che li organizza e li trasforma. Rappresentando cioè la capacità dell’uomo di comunicare.

Solo che la parola l’abbiamo sgualcita, alterata, consumata, svuotata di significato. Per rendere accettabili le nostre storie e renderla schiava delle nostre finalità: per fornire spiegazioni e raccogliere e mettere insieme in modo per noi plausibile fatti e accadimenti ma soprattutto per rassicurarci nell’incertezza.

Questo accade anche a causa del nostro emisfero sinistro che assembla gli stimoli delle diverse esperienze, li ricompone attraverso una trama che abbia senso e li restituisce sotto forma di narrazione. Si chiama “modulo interprete” ed è la parte del cervello che ricostruisce diversi segmenti della realtà e li rende una rappresentazione tranquillizzante.

Molte volte a spese dell’autenticità e della realtà.

Alcuni esempi? Il rammarico di Goering che diceva ad Hitler: “E’ andata male perché siamo stati troppo buoni”; il dolore di Bertold Brecht perché “Una parte delle nostre parole le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili”; l’istruzione di R Kipling al figlio:” Se riuscirai a sopportare di sentire le verità che hai detto distorte dai furfanti”.

Però se la narrazione può aiutarci a mettere ordine e comporre i contrasti e a superare le contrapposizioni tra pensieri ed emozioni, facciamo sì che la narrazione sia onesta.

E’ per questo che preferisco: “In principio era la cura”. Credo infatti che la cura ci possa aiutare a capire il rapporto che abbiamo con noi stessi e con gli altri. E ad agire questo rapporto come suggerisce Calvino con un … “paziente minuscolo lavoro di ognuno di noi che si china su un qualcosa e gli dà spazio, lo fa durare” …

In che modo: scegliendo i pensieri che lavorino per noi e non contro di noi, sviluppando risposte consapevoli contro gli automatismi, non sciupando un solo momento del nostro tempo a pensare a chi non ci piace, facendo caso a quando siamo felici, pensando che i nostri problemi possono aiutarci in modo del tutto inaspettato, ricercando un buon rapporto con gli altri, o con il fare un’opera buona perché quando si porge una rosa agli altri un po’ di profumo resta attaccato alla nostra mano. E nel darci una missione in una di queste attività.

In principio era la cura è anche il titolo di un libro di più di 20 anni fa che distingueva tra visione scientifica e visione umanistica della cura. La prima orientata a ristabilire un ordine, a “guarire”, a ottenere risultati; la seconda ad interagire e ad aiutare a far crescere. ( “In principio era la cura” a cura di P. Longhi e L. Preta, Sagittari Laterza, 1995)

Quale visione preferire? Ristabilire un equilibrio o favorire un processo di trasformazione?

Questa scelta non ci deve interessare.

L’importante è non far prevalere l’in-curia e la non-curanza verso sé e gli altri e camminare guardando avanti con un’altra variante della cura, la curiosità.

Contro il rifiuto aprirsi all’altro (come persona) e alla situazione altra (il nuovo e l’insolito).

Città Invisibili, Italo Calvino

 Al termine delle Città Invisibili, Italo Calvino immagina l’ultimo dialogo tra il Gran Kan Kublai e Marco Polo. Il Kan gli dice che tutto è inutile se l’ultimo approdo è la città infernale, dove ci risucchia la corrente. Ma Marco Polo risponde che ”l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà ma è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. E conclude di fronte ad un Kublai perplesso:

“Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige cura, attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Non tanto allora gesti eclatanti e di rottura quanto il paziente, minuscolo lavoro di cura di ognuno di noi, che si china su qualcosa di apparentemente non così significativo, non così importante – e come dice Calvino – gli da spazio e lo fa durare.

 

Bertold Brecht, A chi esita

Dici:
per noi va male.
Il buio cresce. Le forze scemano.
Dopo che si è lavorato tanti anni noi siamo ora in una condizione più difficile di quando si era appena cominciato.
E il nemico ci sta innanzi più potente che mai.
Sembra gli siano cresciute le forze.
Ha preso una apparenza invincibile.
E noi abbiamo commesso degli errori, non si può più mentire.
Siamo sempre di meno.
Le nostre parole d’ordine sono confuse.
Una parte delle nostre parole le ha travolte il nemico fino a renderle irriconoscibili.
Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto?
Qualcosa o tutto?
Su chi contiamo ancora?
Siamo dei sopravvissuti, respinti via dalla corrente?
Resteremo indietro, senza comprendere più nessuno e da nessuno compresi?
O contare sulla buona sorte?
Questo tu chiedi.
Non aspettarti nessuna risposta
oltre la tua.

Francesco Tulli

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