Il trolley, l’etica e la virtù.

Tra gli interrogativi immaginari costruiti per testare il livello di etica, il più conosciuto è il dilemma del carrello ferroviario, il trolley.

Immaginiamo un treno che sta per investire cinque uomini legati sui binari uccidendoli. Attivando uno scambio, il carrello verrebbe deviato verso un altro binario dove c’è un solo uomo. Cosa fare? A questa domanda quasi tutti rispondono che bisogna attivare la leva dello scambio perché in tal modo verrebbero salvate quattro persone.

Un’altra ipotesi cambia la situazione di partenza: ti trovi su un ponte pedonale sopra la ferrovia e non si può azionare uno scambio. L’unica possibilità è sacrificarsi e saltare dinanzi al carrello ma ti rendi conto che il tuo peso non basterebbe a deviarlo dalla sua traiettoria. Vicino a te vedi però un estraneo, un signore molto grasso che se spinto giù dal ponte è in grado di bloccare o modificare la corsa del carrello e salvare quindi i cinque uomini.

“Uccidere l’uomo grasso?” Questa è la domanda che ha impegnato da quasi cinquanta anni gli studiosi di etica e ha prodotto nel tempo articoli, pubblicazioni e libri.

Le ricerche di Joshua Greene (interessante anche la prospettiva di Marc Hauser: Menti morali. Le origini del bene e del male. Il saggiatore) e l’uso della risonanza magnetica funzionale, hanno evidenziato che quando gli individui sono chiamati ad emettere un giudizio che li riguarda come persone, evidenziano un’attività più intensa nell’area del cervello associata alle emozioni, diversamente da coloro a cui viene richiesto di dare un giudizio su violazioni relativamente impersonali o utilitaristiche. Insomma, per salvare un gruppo di uomini un conto è sacrificare una persona azionando una leva, un conto è spingerla per frenare il carrello.

Da esperimenti mentali in cerca di risposte e da alternative che prima o poi tutti ci troviamo ad affrontare, il tema dell’etica e della sua necessità si sta affermando con un ruolo di centralità, prima trascurato, in un contesto sociale di sgretolamento della comunità, di indebolimento dei legami interpersonali e di individualismo senza limiti. Gli stessi fatti di Nizza che hanno fatto parlare di “perdita dell’umanità” portano con sé l’esigenza di riscoprire i valori su cui essa si fonda. Ci ricordano la necessità di ritrovare una nuova idealità, una nuova consapevolezza e una nuova responsabilità.

Non è solo bisogno di etica. E’ fame di etica.

Proprio su questo tema, in un recente convegno a Bergamo su “Sicurezza e benessere: un binomio possibile” (il dibattito guidato da Silvia Vescuso di Informa mi vedeva relatore insieme con il magistrato Raffaele Guariniello, Alessandro Zollo CEO di Great Place to Work e Lucina Mercadante dell’INAIL) è emersa la domanda su quale contributo possa dare l’Azienda per promuovere il senso etico in un periodo così incerto e imprevedibile.

Ebbene, ci si è ritrovati sul ruolo significativo che l’azienda può svolgere nel valorizzare le persone, promuovere il connubio tra etica e produzione, potenziare il benessere della comunità, rendere la Responsabilità Sociale ed Etica una “strategia utile a soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma soprattutto per andare più in là nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate“ (dal Libro verde su Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese). Lo stile dell’Impresa Olivetti non è nostalgia ma un riferimento significativo.

E l’azienda ha mille strumenti per passare i messaggi dell’etica: l’ascolto delle persone e la comunicazione autentica, lo stile di leadership e il suo ruolo di interfaccia, il valore e la forza del gruppo, la promozione di una intelligenza non solo logico-razionale ma sociale, etica ed introspettiva.

Altro strumento ad alta efficacia è la formazione, ma ad alcune condizioni.

Che sia formazione all’agire (saper scegliere i fini), e non solo formazione al fare (saper raggiungere risultati); che favorisca la consapevolezza come modalità per interpretare le inquietudini di una realtà incerta e imprevedibile e contenere un’emozionalità reattiva e ansiosa; che accompagni davvero gli individui a identificare spazi di azione e di realizzazione e a farli sentire autori della propria vita professionale.

E allora ritorniamo al carrello ferroviario, il trolley.

Il comportamento etico nasce e si sviluppa quando si è vicini all’emozionalità delle persone e si parla con loro in un contesto di ascolto. In definitiva quando la formazione favorisce la loro consapevolezza: la costruzione cioè delle condizioni migliori per rapportarsi alla realtà di lavoro (e forse della stessa realtà di vita) e rispondere in modo appropriato ed etico alle richieste a volte contraddittorie e conflittuali dell’ambiente.

Quello che Aristotele chiamava virtù.

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