Cosa possiamo apprendere dal Covid-19? In virus veritas.

Nel trompe l’oeil Fuga dalla critica (1874, Pere Borrel del Caso) è ritratto un ragazzo nell’atto di fuggire dalla raffigurazione entro cui è confinato. Ha lo sguardo sorpreso, smarrito, impaurito. Uno sguardo che può sintetizzare lo sgomento che stiamo vivendo in questa pandemia da Covid-19. Anche io voglio provare a scavalcare la cornice con cui inquadriamo l’attuale realtà condizionata dal virus con l’espressione in virus veritas, ovvero il tentativo di far emergere le verità più significative in questa vita sospesa.

In virus veritas è un gioco di parole, una trovata anche comica, ispirata al famoso “in vino veritas” (nel vino è la verità) di Orazio: se il proverbio latino vuole dirci che lo stato di ebbrezza svela cose di noi agli altri e a noi stessi (un’anticipazione della “area cieca” della Johari window), noi potremmo asserire che nel virus possiamo trovare verità che sono in grado di sostenere il desiderio (voluptas) e la volontà (voluntas) di cambiare per una nostra identità più forte (auctoritas).

Ma quali verità ci offre l’esperienza della malattia pandemica? È una ricerca difficile, considerando i diversi pareri di quelli che vogliono lavorare a distanza, quelli che vogliono lavorare in presenza, quelli che dicono viva lo smartworking, quelli che dicono che lo smartworking è invasivo, quelli che si trovano male perché è un momento di disorientamento, quelli che si trovano bene perché è un momento di trasformazione, quelli che vogliono tornare in fila sulla tangenziale, quelli che non vogliono più uscire di casa, quelli che non vogliono tornare alla normalità, quelli che propongono una nuova normalità, quelli che dicono siamo in guerra, quelli che dicono che è una guerra perché non vediamo il nemico, o perché non si è mai vista una guerra con il cellulare nella mano destra e il telecomando sulla sinistra…

Per non parlare delle reazioni individuali e del proprio sentirsi e sentire avvilimento, collera, irritazione, stanchezza, rabbia. Ansia. Le diverse forme della nostra emotività “mangiate” dalla parola stress.

Quali apprendimenti ci riserva il virus?

Forse, dietro a ogni veritas c’è soprattutto qualcosa da imparare. Per esempio: come reagire dinanzi a questo capovolgimento della nostra vita, al senso di sgomento che ci pervade? Come reagire a questo contesto fatto di un tempo sospeso? Pensavamo al passato, al presente, al futuro invece oggi c’è un nuovo tempo, il tempo sospeso. E come si sta in questo equilibrio sospeso? E quali sono le strade da percorrere senza sapere cosa c’è dietro una curva, come avvicinarsi al futuro quando si hanno gli occhi bendati? Si sta come/d’autunno/sugli alberi/le foglie. (Soldati di Ungaretti)

Primo apprendimento: quello che stiamo vivendo è un test.

Nella vita professionale quando ci confrontiamo con assessment e development center “somministriamo” test ai gruppi che incontriamo. Adesso siamo noi che siamo sottoposti ad un test. È una prova di personalità in cui, restando più o meno chiusi in casa per le restrizioni governative, possiamo:

  • guardare con attenzione noi stessi e i nostri limiti;
  • attivare un rapporto critico con noi stessi, infrangendo quelle barriere, quelle resistenze che non ci consentono di guardare alle nostre vite.

In questo momento è l’Azienda Vita che ci sta valutando. Ci potrà essere utile, ne faremo tesoro? O è solo una routine organizzativa a cui siamo esposti? Vedo aumentato il senso di responsabilità ed uno spazio maggiore del Super Io che ci esorta ad assumere comportamenti coerenti con quello che è il bene comune e ci fa diventare custodi di questo stesso bene.

Secondo apprendimento: i paradossi della pandemia e del digitale.

Comma 22 libro di Joseph Heller e film degli anni ‘70 con la regia di Mike Nichols ci mostra con chiarezza cos’è un paradosso. E noi stiamo vivendo nel paradosso.

Francesco Tulli_Le Humanities

Per fronteggiare la pandemia dobbiamo isolarci gli uni dagli altri, ma nel momento in cui cerchiamo faticosamente di vivere isolati gli uni dagli altri ci rendiamo conto della assoluta necessità per la nostra vita del vivere con gli altri! Quanto ci stanno mancando i rapporti umani! Quelli di amicizia e quelli professionali; il dare e ricevere feedback che acquieta la diffidenza e la rabbia nate irragionevolmente; la sorpresa nell’avvicinarsi agli altri scoprendo che non sono né idioti (effetto Dunning Kruger) né persecutori ma che l’umanità è ricca e variegata.

Nel nostro lavoro di formatori (non parlo dei narcisisti che cercano negli altri solo un contenitore delle proprie emozioni e del proprio io), le persone in aula sono un nutrimento, un arricchimento, una progressiva costruzione di identità. A me manca il loro sorriso, l’intesa dello sguardo, la risata, la vicinanza, il contatto, mi manca persino lo sbadiglio, l’aria di sufficienza, lo sguardo annoiato, lo sguardo che dice “e allora…?”

Francesco Tulli_Le Humanities

Collegata a questa esigenza di vicinanza, di un ritrovarsi accanto è la considerazione relativa all’odiato ed amato digitale (temevamo il logos e siamo stati assaltati dalla forma più antica del bios). Forse riguarda chi è più anziano, ma non è un caso che gli studi sul tecno stress approfondiscano temi quali tecno-overload, tecno-invasion, tecno-complexity. Sono problemi che vengono esplorati e dibattuti, a volte trascurati, soprattutto in questo momento di smartworking ancora emergenziale. Eppure, io penso che tanto più lasceremo diffondere il digitale tanto più assumerà valore tutto ciò che ci fa sentire umani. La distanza porta alla solitudine, andare alla deriva sembra sia il movimento naturale attivato dall’isolamento. La vicinanza, lo stare accanto, ci fanno sentire umani e noi non ci dovremo mai far rubare ciò che ci fa sentire umani.

Sono orgoglioso del nostro logo Humanities: ciò che è umano. Nella nuova normalità dovremo difendere a denti stretti quello che il virus ci sta rubando: il sorriso, la lacrima, lo stesso odore… Lo stare accanto.

Terzo apprendimento: il bisogno di pensare.

Questa nostra società ci invita a un continuo a comunicare, a condividere, a partecipare, ad esprimere opinioni e desideri, a raccontare la nostra vita. Siamo trascinati dalle emozioni, ma non dobbiamo perdere di vita che sono emozioni del presente: è quello che provo adesso, qui, ed è l’unico criterio di verità perché il tempo non è più scandito da ciò che è stato, da ciò che è e da ciò che sarà, è diventato un continuo è, è, è.

Le emozioni sono nostre padrone e più siamo bersagliati da stimoli emotivi, più aumentano le pulsioni e più perdiamo il valore del pensare e del dispiegarsi del ragionamento.

“Fermati, lascia che la tua anima ti raggiunga” dice un detto africano e, forse, è quello che vuole dirci il virus. La nostra oggi è una sosta ai box: abbiamo la possibilità di dare spazio a un pensiero che non è quello ossessivo del “sono in ritardo” ma quello che consente di lasciare la propria impronta.

Fermarsi a riflettere è necessario per governare e non subire la realtà che stiamo vivendo. Un giorno una persona che collabora con me ha detto: “Vivevo all’interno di un frullatore, dentro alla ruota di un criceto. Questo arresto mi ha insegnato che la lentezza può essere un valore, che fermarsi e stare è essenziale; che non essere performanti è un modo per volere bene a sé stessi; che fermarsi e fermarsi a pensare è un valore.”

Quarto apprendimento: l’importanza della paura

Un’altra veritas del virus è la necessaria riconsiderazione della paura, dell’importanza che ha la paura. Non voglio scivolare nella deriva psicologica dell’ansia che sembra dominarci in questo periodo… Mi riferisco alla paura, di questa nostra emozione primaria di difesa.

Sembra una partita a scacchi: il nostro avversario ha il bianco e noi con il nero siamo costretti a giocare in seconda battuta, di rimessa. E si affaccia la paura. A questo punto proviamo a vedere quale paura ci può venire in aiuto. Non quella che immobilizza, che paralizza il nostro agire, che ostacola le nostre azioni ma quella che cerca di prevedere, di capire, di scoprire, che cerca informazioni, che ci spinge a fare domande, che genera curiosità. E che ci spinge a rivedere quanto fatto.

La paura come dovere e come euristica, che ci consenta di riflettere sulle conseguenze dell’agire, di orientarci verso la responsabilità (come etica delle conseguenze e non dei principi), di darci il senso degli effetti a lungo termine, di sostenere la cura dell’altro (vedi Hans Jonas e il Principio di Responsabilità).

Quinto apprendimento: la nostra fragilità come limite e come coraggio.

Ultima veritas (ultima?) la nostra fragilità e il nostro limite. La pandemia ci ha esposto alla vulnerabilità, ci ha detto che siamo persone deboli e bisognose di sostegno, bisognose di avere persone accanto, bisognose di amore, di compagnia. Ci ha fatto rendere conto di quanto siamo interdipendenti e di quanto abbiamo bisogno di chiedere aiuto per pensare insieme al futuro.

Cosa vuol dire questo? Se prendiamo piena consapevolezza della nostra fragilità e la accogliamo come parte di noi, saremo più veri, sensibili, più disponibili a mettere in discussione le nostre abitudini, la nostra zona di comfort. In questo modo la fragilità:

  • diventa una forza e ci dà la spinta a orientare diversamente il nostro progetto di vita;
  • ci esorta ad alzare lo sguardo dall’individualismo (a livello sociale), dall’egoismo (a livello morale), dal narcisismo (a livello psicologico);
  • ci ammonisce: guai a sentirsi onnipotenti!

Daniel Goleman ha reso prestazionale, “intelligente” la nostra emozione per farci guidare nelle direzioni più vantaggiose. A me interessa sottolineare il punto di partenza, l’antefatto delle emozioni, che vuol dire riscoprire la propria autenticità, avere a cuore e aver cura della propria autenticità, restare in contatto con s stessi.

La fragilità è la base di una nuova grammatica del sentire, che parte dalle debolezze e dalla paura e diventa coraggio: il coraggio dell’eroe quotidiano (ricordo Stoner di John Williams) che accetta la propria vulnerabilità, che spera nonostante la paura, che è libero perché non si lascia imprigionare dal timore del cambiamento, che è generoso perché offre anche agli altri quello che è importante per lui.

Concludo: il virus ha messo in evidenza che la cultura individualistica è insostenibile e che abbiamo bisogno di recuperare il valore dell’incontro con l’altro, dell’abbraccio, a cui una prassi abusata ha tolto valore. L’abbraccio, peraltro, già depotenziato dal digitale, dall’abitudine del nostro concludere le frasi con… un abbraccio.

Francesco Tulli

7 Commenti
  • Emanuela Drago
    Postato alle 08:39h, 13 Febbraio Rispondi

    Molto bello quello che scrivi Francesco, grazie! Sono d’accordo con molta parte della tua analisi, soprattutto quando ti fermi sulla vulnerabilità e sul bisogno di relazione. Credo che l’insegnamento più importante che la pandemia ci offre sia che “respiriamo tutti la stessa aria” – condizione che consente alla pandemia di essere tale – siamo tutti nella medesima condizione: gli umani, e tutti gli esseri viventi. Siamo in interazione costante. Ci dobbiamo prendere cura di noi e degli altri nella stessa misura se vogliamo guadagnarci una buona vita. Senza retorica ma con profondo senso etico. Un abbraccio

    • Francesco Tulli
      Postato alle 14:07h, 13 Febbraio Rispondi

      Grazie, Emanuela, per il tuo puntuale e prezioso commento. Ti abbraccio anch’io.

  • Gabriella
    Postato alle 00:34h, 14 Febbraio Rispondi

    Caro Francesco , leggo la tua nota dopo aver ascoltato le tue parole dal vivo , convinta di esserti accanto ed invece eravamo semplicemente connessi …
    mi sono ritrovata in tutti gli apprendimenti che hai citato e mi riconosco molto in quello della paura,” quella che cerca di prevedere, di capire, di scoprire, che cerca informazioni, che ci spinge a fare domande, che genera curiosità. E che ci spinge a rivedere quanto fatto. “ grazie come sempre !

    • Francesco Tulli
      Postato alle 14:53h, 14 Febbraio Rispondi

      Grazie a te, Gabriella, per la tua testimonianza e per seguirmi anche nel mio blog. Alla prossima. Francesco.

  • Giancarlo Di Biasi
    Postato alle 10:20h, 14 Febbraio Rispondi

    Ciao Francesco,
    a Milano, in una piccola Galleria densa di capolavori, c’è un’opera di Giovanni Bellini, “Imago Pietas”, nella quale, sullo sfondo, accanto alla rappresentazione di Gesù il cui corpo mostra il pallore della morte, sono rappresentati, a destra un albero secco, a sinistra delle piante rigogliose, simbolo della redenzione dell’uomo. Mi piace pensare che questo periodo, che ha fatto “entrare” e “vivere” la vulnerabilità in tutti i contesti organizzativi, anche in quelli che ne hanno sempre negato l’esistenza, stia offrendo a tutti noi, la possibilità di una redenzione, intesa come acquisizione di libertà morale e riscoperta concreta, sincera ed effettiva di comportamenti di promozione umana come la cura di sé stessi, la cura dell’altro, l’ascolto, la fiducia, la pazienza. Molte persone, anche in ruoli di responsabilità, ne stanno concretamente apprezzando il valore attraverso la pratica quotidiana. La speranza è che questi insegnamenti, lascino in tutti noi una solida traccia mnestica. Per far questo è necessario che la speranza lasci il posto all’impegno. Un caro saluto e grazie per gli spunti di riflessione.

    • Francesco Tulli
      Postato alle 15:01h, 14 Febbraio Rispondi

      Molto bello il tuo commento, Giancarlo, grazie. Lo conservo insieme a tutti i commenti che, come il tuo, stanno dando anche a me ulteriori spunti di riflessioni. Un caro saluto, a presto. Francesco

  • Giorgio
    Postato alle 19:54h, 24 Febbraio Rispondi

    Ricorderai i famosi “sei gradi di separazione”, i sei contatti -l’uno legato.all’altro- con cui si potrebbe raggiungere qualsiasi altro essere umano nel mondo, compreso il Presidente degli Stati Uniti, o invece del Kazakistan. La pandemia ci ha fatto utilizzare di più la tecnologia digitale. E, anche qui, come negli altri bivi dell’esistenza, possiamo usarla per fare il.giro del mondo e cogliere dei contatti nuovi oppure manovrarla per una discesa verso il basso. I corsi di formazione possono essere uno spunto per guardarsi attorno, anche, per capire cosa c’è dietro i pixel di un volto che ci incuriosisce. E, spinti da quella curiosità, scoprire aspetti inediti e coinvolgenti. Come la tua riflessione “In virus veritas” , gioco di motti divertente e divertito. In ogni caso, riflettere ancora si può, ancora si deve. Cogliamo.questa opportunità. Fermiamoci, ma per sondarci, per guardarci, dentro e fuori.

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